domenica 8 febbraio 2015

GIANDUIA



Gianduja (Giandoja in piemontese, IPA [ʤan'dʊja]) è una maschera popolare torinese di origini astigiane della commedia dell'arte. Il suo nome deriva dalla locuzione Gioann dla doja ovvero Giovanni del boccale.

Gianduia è la maschera del Piemonte e nella tradizione carnascialesca si affianca a quelle medioevali di Balanzone per Bologna, Pantalone per Venezia, Pulcinella per Napoli ecc.
È nato sul finire del 1700 dalla fantasia di due burattinai, Bellone di Oja, frazione di Racconigi, nel cuneese, e del torinese Sales.

In piazza Castello, a Torino, al sabato, davanti a Palazzo Madama (già Porta di Levante di Augusta Taurinorum) si teneva un mercato dove si vendeva e si comperava di tutto, ortaggi, tessuti, attrezzi agricoli, scoiattoli ammaestrati e pappagalli parlanti. Sui banchetti si trovavano pomate miracolose e liquori di lunga vita. In elegante abito nero con cilindro in testa, il luminare della medicina professor “Dulcamara”, assistito dal “dotor” “Santa-man” (santa mano), offriva per 10 centesimi il suo “particolar” “elisir sensa egual, specìfich d’ògni mal, gran ben për l’umanità, l’ha mai guarì, l’ha mai massà!” (ossia il suo elisir senza pari, specifico per ogni male, non ha mai guarito ma non ha neppure ammazzato!).

Burattinaio di fama era Umberto Biancamano noto come Gioanin dj' Osej (Giovannino degli uccelli), felicità dei piccoli e di chi li accompagnava. Erano assidui spettatori Giovanni Battista Sales e Gioacchino Bellone, facili alle risate ed alle battute di spirito. I due giovani decisero di fare altrettanto, muovere burattini di legno e recitare frasi spiritose contro il malgoverno. Rispolverarono un copione del 1600 che raccontava le disavventure di Gironi, sprovveduto contadino alle prese con la burocrazia del potere: sagaci freddure e tante bastonate in testa. La gente si divertiva ed applaudiva. Aggiornarono le battute obsolete con una sottile critica ai costumi ed alla politica del primo 1800.
Confortati dal successo si misero in tournée. Tennero spettacoli un po’ ovunque arrivando nel 1802 a Genova. Il pubblico sorrideva alle disavventure di Giròni, specialmente quando si tirava in ballo il potere costituito ligure. Infatti il doge di Genova si chiamava Gerolamo Durazzo ed i genovesi lo identificavano nella marionetta Giròni, che ne ridicolizzava il nome.

Arrivarono altri spettatori e con loro la polizia che li arrestò. L'accusa fu pesante: ingiuria nei confronti del doge. Le marionette furono bruciate con la baracca e Sales e Bellone furono espulsi dalla città e accusati di lesa maestà. Prima di andarsene si fecero intagliare nuovi burattini dal celebre scultore Pittaluga, e coi novelli personaggi i due tornarono a Torino ed impiantarono un teatrino nel cortile dell’Albergo del Pastore, in via Dora Grossa, oggi via Garibaldi.

Qui presentarono “La storia di Artabano 1°, ossia il Tiranno del Mondo, con Gerolamo suo confidente e re per combinazione”. Si scatenò il finimondo: le battute erano spassose, ma il reverendo Baudissone, deputato a controllare le licenziosità della città, le interpretò come gravi offese al fratello di Napoleone, che, come il doge di Genova, si chiamava pure lui Gerolamo. I due poveri burattinai furono nuovamente denunciati per lesa maestà. Al processo ripeterono le frasi incriminate: “Liberté egalité fraternité, ij fransèis a van an caròssa e noi a pe"! E poi ancora: “Viva la Fransa viva Napoleon, chiel a l’é rich, e noi ëstrasson”. ("Libertà eguaglianza fraternità, i francesi vanno in carrozza e noi a piedi". "Viva la Francia, viva Napoleone, lui è ricco e noi straccioni".) Nel tribunale il pubblico divertito esplose in fragorose risate, ma non i giudici decisamente infuriati. Accusati di aver tramato contro lo Stato i due furono condannati a morte e rinchiusi nelle Torri Palatine, ma riuscirono a fuggire.
Raggiunsero Asti e chiesero aiuto alla famiglia De Rolandis di Castell'Alfero, ancora fortemente provata per la morte di Giovanni Battista De Rolandis che a Bologna, con Luigi Zamboni, aveva cercato di sollevare la città distribuendo coccarde tricolore, simbolo di una nuova Italia. Bellone e Sales furono ospitati e nascosti a Callianetto, piccola frazione di Castell'Alfero, in un cascinale isolato, dell’allora medico Alessandro Giuseppe De Rolandis, fratello del defunto Giovanni Battista. La fattoria era in una folta selva che ancora oggi si chiama bòsch dël medich (la foresta del medico). Questa casa - oggi proprietà del comune di Castell'Alfero - detta 'l Ciabòt ëd Giandoja - è sede di interessanti attività turistiche.

Qui i due scrissero un nuovo canovaccio, cambiarono il pericoloso nome di Giròni in Giandoja e mutarono anche il suo linguaggio che riassunse il carattere del popolo piemontese, alquanto conservatore (bogianen, ovvero immobile), ma di ottimo umore, fedele al dovere e alla parola data. Non più battute in libertà, come recitava "Gioanin dij'Osej", ma una chiara critica politica, per portare avanti l’idea del Risorgimento e dell’Unità d’Italia anche attraverso il teatrino dei burattini. Il nuovo Gianduja aveva un viso rubicondo e la parrucca col codino volto all'insù, vestito con un giubbetto color marrone orlato di rosso, panciotto giallo, calzoni verdi e corti fino al ginocchio, calze rosse e scarpe basse con fibbia d'ottone. Era la fine del 1807. Sul tricorno era ben visibile la coccarda tricolore, la stessa conservata oggi nel museo dell’Università di Bologna, la medesima che a Reggio Emilia e a Modena era stata applaudita nel 1797 come vessillo della nuova Italia.
Gianduia da allora è rimasto sulle scene con quel suo fare sornione, col boccale pieno di vino, il volto rubicondo, il sorriso benevolo. Attraverso la penna del caricaturista Casimiro Teja e di tanti altri, gli scritti di Angelo Brofferio, Gec (Enrico Gianeri), Fulberto Alarni, e con l'avvento dei giornali satirici L'Aso (l'asino), Il Fischietto, L'Armonia, Il Bastone, Il Soldo, Il Pasquino, 'l Caval d' Brons, i supplementi della Gazzetta del Popolo, le edizioni della Famija turinèisa, Gianduia stimolò realmente le decisioni del Parlamento Subalpino, mettendosi in continua contrapposizione con personaggi del calibro di Cavour, Mazzini e d'Azeglio. La sua gloriosa storia richiamò fortemente l'evoluzione della Penisola, e un continuo incitamento per gli italiani all'unità nazionale, tutti partecipi ad una medesima patria.

Molti autori hanno cercato di dare un significato al nome “Gianduia”. Due le ipotesi più attendibili: Giandoja come contrazione di Gioanin dla doja (doja recipiente per il vino), oppure un gentile atto di riguardo di Sales verso l’amico Bellone, Gioanin d’Oja, “Oja” frazione di Racconigi. Un mistero questo che rimane rigorosamente oggetto di logorroiche discussioni, ma solo nel periodo di carnevale.
Molti sono stati i personaggi che hanno indossato i panni di Gianduja nel periodo di carnevale simulando nella quotidianità la tradizione folcloristica. Allegro e godereccio, incarna lo stereotipo piemontese del "galantuomo" coraggioso, assennato, incline al bene e fedele alla sua inseparabile compagna Giacometta, che lo affianca nei balli ricchi di coreografia, ma soprattutto nelle opere di carità e di partecipazione. Nella settimana che precede l'inizio della Quaresima, Gianduja visita ospizi, ricoveri, ospedali per bambini, distribuendo le tipiche caramelle rotonde e piatte, avvolte in un cartoccio esagonale, con impresso il suo profilo mai disgiunto dal tricorno delle armate piemontesi ottocentesche alle quali si deve l'Unità del Paese.
Dal suo nome deriva quello della cioccolata di tipo gianduia e del relativo cioccolatino gianduiotto con la quale è confezionato, entrambi specialità torinesi. I cioccolatini venivano distribuiti dalla maschera durante la festa del carnevale; probabilmente per lo stesso motivo il nome Gianduja è stato dato alle grosse caramelle a forma di cialda incartate in caratteristici involucri esagonali.

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