lunedì 23 febbraio 2015

MILANO MULTIETNICA - VIA PADOVA -

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Via Padova è vivace e spigolosa, colorata e multietnica, è una via sicuramente difficile, ma anche stimolante, non è pulita e ordinata come qualcuno vorrebbe, ma proprio per questo non è asettica e indifferente come molti quartieri di Milano. E’ varia e disordinata, ma il disordine è tutto: randagismo, mescolanza, cambiamento.
La prima parte, fino alla ferrovia per intenderci, è una specie di alter ego di corso Buenos Aires, una concentrazione enormi di negozi di abbigliamento e ristorazione. Ma se corso Buenos Aires è l’apoteosi del conformismo popolare fatto di brand, via Padova è un insieme scompaginato di  outlet, cinesi e latini che vendono tutto, minimarket etnici, est-asitici, mediorientali, sudamericani, africani, negozi autoctoni, bar, kebabbari, pizzerie e ristoranti. In questi si coltivano abbinamenti curiosi ed audaci. Possiamo trovare la cucina latino-egiziana, latino-cinese, italo-cinese e così via; il mcdonald è provincia, questo è il mondo!

In verità anche questo primo tratto è composto da due parti divise da una rotonda. Verso il centro vi è la parte by night, sempre in movimento, dalla parte opposta vi è invece il parco Trotter, vero e proprio centro inter-culturale ove si vive un’atmosfera d’impegno multietnico.

Il lavoro svolto da associazioni,insegnanti e genitori con tutte le difficoltà possibili e immaginabili, è un lavoro dal valore incommensurabile. Veramente mitica, durante l’Onda universitaria, è stata l’iniziativa che ha portato ricercatori e professori universitari al Trotter dove tutte le classi medie ed elementari si sono divise e riaggregate per assistere lezioni di chimica, economia, urbanistica e politiche multiculturali.

Dopo la ferrovia il quartiere si calma ma non tace, il mercato comunale, negozi più tradizionali ed alcuni locali mantengono vivace la via. E’ qua che si colloca la Moschea che a sua volta funge da spartiacque. Oltre, verso Ponte Nuovo, i quartieri assumono un aspetto da vera periferia milanese. Durante il giorno la vita scorre intorno al supermercato ed ai negozi ma la sera cade un profondo silenzio, come accade altrove e da sempre nella periferia della città.

Ovunque si incontrino povertà ed emarginazione,che siano autoctone o multietniche, si creano forti situazioni di disagio. Non c’è da negarlo, lo spaccio è forte, fortissimo, ma non dobbiamo neanche dimenticare che è la domanda a comandare l’offerta! In altre parole: la cocaina viene venduta a persone di pura razza Italiana, e viene importata da cartelli mafiosi di altrettanta certificata italianità. Possiamo continuare a pensare che il problema sia l’intermediario straniero?

Nel quartiere c’è ricchezza e vitalità. Via Padova è tutt’altro che un quartiere dormitorio stile anni settanta. C’è forse un solo particolare a renderlo simile, la difficoltà per chi viene da fuori (fuori dal quartiere) di carpirne i meccanismi, le peculiarità, i ritmi, gli odori, i linguaggi. E se il quartiere cambia chi rimane fermo è come se venisse da fuori. Eh sì, per un pensionato nostrano dev’essere difficilissimo vivere in un mondo che gli appare alieno, ma il futuro non è il paese dei vecchi, d’altronde la sua pensione la pagano i migranti.

Ora vanta una festa, "Via Padova è meglio di Milano", che, alla terza edizione, è organizzata da 70 associazioni, con la collaborazione di singoli cittadini e negozianti, e ha in programma oltre 110 eventi, tra spettacoli, mostre.

Via Padova è una traccia storica nel territorio, identificabile fin dalle mappe del catasto teresiano. Un rettilineo di circa quattro chilometri, un asse di penetrazione urbano, un raggio topografico che parte da piazzale Loreto e si disperde in quella che fu la campagna padana e ora è ancora città, per chilometri e chilometri. Passa un lacerto di pista ciclabile, una specie di illusione ottica che appare e scompare come tutte le piste ciclabili milanesi che nascono in posti improbabili e muoiono improbabilmente in modo repentino.

Loreto, piazzale, neppure piazza, spazio invivibile, snodo viario e autentico portale d’ingresso alla città borghese. Toponimo cupo, dove tutti si chiedono dove abbiano appeso per i piedi il Duce e nessuno dove furono fucilati i partigiani antifascisti. Il piazzale pullula di una vita in movimento, di gente che va, che viene, che si sotterra nei cunicoli della metropolitana oppure che attraversa temeraria l’asfalto sistematicamente intasato di autovetture. Inoltrandosi nel quartiere si passa davanti al panettiere egiziano. Poi il ristorante cinese (ottimo, con un curioso doppio menù: quello che tutti conosciamo – involtini primavera, ravioli al vapore, etc. – e un altro con piatti mai sentiti nominare. Ogni volta ne provo uno, stupendomi). Poi locali peruviani, chiese avventiste filippine, parrucchieri cinesi, kebaberie pakistane.

Gli immigrati cinesi hanno tenute alzate quelle serrande che chiudevano una dietro l’altra sotto i colpi mortali dalla grande distribuzione degli ipermercati. Sono stati più capitalisti di noi, più bravi, con quell’attaccamento al lavoro degno dei brianzoli d’una volta; e per questo non li sopportiamo, cercando di imporre protezionismi dal vago sapore razzista, camuffandoli da welfare. In un decennio, quello dell’euro, dove i prezzi sembravano impazziti, questi negozi al dettaglio giocando al ribasso sono diventati realmente concorrenziali, ma soprattutto hanno permesso la sopravvivenza minima a chi proprio non ce la fa economicamente: i poveri esistono, piacciano o meno nella città della moda e del design. E pure loro vogliono mangiare, bersi un caffè o tagliarsi i capelli a prezzi abbordabili.

Girando al Parco Trotter, un sogno educativo d’inizio secolo - il Novecento - dove la collettività creava soluzioni innovative per l’emancipazione dei cittadini più poveri. Una scuola immersa nel verde, dove poter fare lezione all’aperto, sotto un sole generoso. Oggi buona parte di quel patrimonio edilizio - che venivano a studiare ammirati da mezzo mondo - è ridotto a rudere, come lo spirito solidale di questa città che resiste a fatica, simile a un monito. Ma il parco è frequentatissimo, da famiglie, coppiette, bambini. In questo quartiere vivono molti scrittori, poeti, artisti, musicisti. Data la pessima nomea i prezzi degli affitti sono più bassi e perciò più abbordabili per chi vuole vivere di cultura, che, come è noto, di soldi ne ha sempre pochi..

Passando in rassegna quartieri di case popolari degli anni Trenta, poi complessi edilizi costruiti negli anni del boom, più ci si allontana e più la città si riempie di edifici  più contemporanei, in una sorta di attraversamento cronologico dell’edilizia sociale meneghina. Ogni tanto appaiono bolle spazio-temporali: residui di borghi di campagna lombarda, arroccati sul tracciato del naviglio Martesana. Là dietro c’è la Casa della Carità di Don Colmegna, presidio solidale nella città indifferente. Via Padova si piega, sfrangia, muore sommersa dai cavalcavia di Cascina Gobba.

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