giovedì 2 luglio 2015

IL DISASTRO DEL GLENO



La Valle di Scalve è ubicata nelle Prealpi Lombarde (provincia di Bergamo), tra le più conosciute Val Seriana e Val Camonica. E' una valle ancora per ampi tratti incontaminata dall'edilizia e dal turismo di massa. Estese foreste risalgono le strette forre del torrente Dezzo per raggiungere le pendici dei ripidissimi massicci calcarei tra cui spicca il Gruppo della Presolana. E' proprio da quest'ultimo che, se si volge lo sguardo più in basso in direzione Nord , compare l'abitato di Vilminore di Scalve. Leggermente più decentrata è visibile la frazione di Bueggio. Dalla frazione Pianezza di Vilminore, si risale il sentiero n. 411 del CAI che porta alla Diga del Gleno, che appare all'improvviso. Dopo un percorso in salita di circa un'ora, il sentiero scavato nella roccia spiana, dopo un tornantino compaiono le tredici arcate di destra orografica. Solamente giungendo in prossimità della Diga sono visibili le altre due arcate di sinistra. In mezzo un enorme squarcio. Il torrente Gleno, affluente secondario del torrente Povo (a sua volta immissario del Dezzo) forma contro i resti della Diga un laghetto. Le arcate ormai scomparse hanno lasciato in bella vista la base in cemento, il famigerato "tampone a gravità", sulla quale è stato attualmente allestito un troppo pieno a sfioro del Lago del Gleno (precisiamo che già prima della costruzione della Diga esisteva un laghetto di montagna).

Il sentiero n. 411 non termina il suo tragitto in corrispondenza della Diga, ma conduce alla vetta del Monte Gleno percorrendo longitudinalmente una tipica valle alpina scavata dal torrente. Questa spettacolare ascesa nella Valle del Gleno nasconde innumerevoli meraviglie naturali. Il protagonista assoluto è comunque il torrente Gleno, che nel corso delle decine di migliaia di anni ha disegnato laghetti, marmitte dei giganti ed una numerosa serie di spettacolari cascatelle. Tutto ciò è racchiuso in un imponente anfiteatro allungato in direzione Nord. Una visita al Gleno quindi, risulterà molto limitata se ci accontenta di contemplare la misera opera umana.

Nel 1907 venne richiesta una concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo da parte dell'ing. Tosana di Brescia. La concessione venne poi ceduta all'ing. Gmur di Bergamo e poi alla Ditta Galeazzo Viganò di Truggio (Milano). Nel 1917 il Ministero del Lavori Pubblici fissò a 3.900.000 mc la capacità di invaso in località Pian del Gleno. Pochi mesi dopo la Ditta Viganò notificò l'inizio dei lavori, ma il progetto esecutivo non era stato ancora approvato dall'autorità competente (Genio Civile). Dopo una serie di proroghe venne presentato nel 1919 il progetto esecutivo per una diga a gravità a firma dell'ing. Gmur. Quest'ultimo però morì un anno dopo e la Ditta Viganò assunse al suo posto l'ing. Santangelo. Nel 1921 venne approvato il progetto esecutivo dell'ing. Gmur con i lavori già da qualche anno avviati. Nel 1921 la Ditta Viganò appaltò alla Ditta Vita & C. le opere di edificazione delle arcate.

Nell'agosto del 1921 l'ing. Lombardo del Genio Civile eseguì un sopralluogo al cantiere e rimase interdetto quando constatò che la tipologia costruttiva della diga a progetto, cioè a gravità (lo sbarramento che si oppone alla spinta del lago grazie al suo peso), era stato cambiata in corso d'opera in una diga ad archi multipli (struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago). Rilevò infatti che stavano per essere costruite le basi delle arcate e che quelle nella parte centrale della diga non erano appoggiate sulla roccia ma sul tampone a gravità. Ne seguì l'immediata diffida al proseguire la costruzione e nel giugno 1922 venne ingiunto alla ditta Viganò di presentare un nuovo progetto, quasi si trattasse di una semplice abitazione in cui è stata variata la posizione di un paio di finestre rispetto al progetto. I lavori andarono avanti malgrado le osservazioni dell'ing. Lombardo e solo nei primi mesi del 1923 venne presentato il nuovo progetto.

Nella seconda metà di ottobre del 1923 il lago venne riempito a seguito delle violente precipitazioni. Vi furono problemi negli scaricatori superficiali ma soprattutto si innescarono massicce perdite d'acqua alla base delle arcate sovrastanti il tampone a gravità. Tali perdite furono sfruttate nelle ore notturne per la produzione di energia elettrica. La diga non poteva dirsi ultimata. Ancora numerose opere edili dovevano essere portate a termine. Il cattivo tempo perdurò anche nella seconda metà di novembre. Il 1° dicembre 1923 alle 6.30 il Sig. Morzenti, guardiano della diga, avvertì un "moto sussultorio violento". In seguito la difesa della Ditta Viganò ipotizzò addirittura che vi fosse stata un'esplosione causata da un atto terroristico. Poco dopo, alle 7.15, avvenne il crollo delle dieci arcate centrali della Diga. Una massa d'acqua di volume compreso tra 5 e 6 milioni di metri cubi iniziò la sua folle corsa verso valle.

Bueggio, frazione di Vilminore, fu quasi immediatamente travolta. L'enorme massa d'acqua, preceduta da un terrificante spostamento d'aria, distrusse le centrali di Povo e Valbona, così come due chiese ed il cimitero. L'acqua percorse lo stretto alveo montano del Povo sino alla confluenza con il Dezzo. L'omonimo abitato fu travolto e scomparve, così come la centrale elettrica, l'antico ponte, la strada e la fonderia per la produzione di ghisa la quale determinò un terrificante spettacolo di acqua, fiamme e vapore. All'altezza di Angolo il Dezzo forma una serie di spettacolari forre (la Via Mala). L'ondata, colma di detriti, creò delle ostruzioni temporanee con effetti terrificanti. Infatti, nei punti più stretti si crearono dei laghi che dopo pochi istanti riuscivano a sfondare le dighe di detrito, causando ondate ancora più distruttive. Molte località furono falcidiate, a Mazzunno venne distrutta una quarta centrale elettrica. L'abitato di Angolo rimase invece quasi intatto. L'ondata si precipitò nell'odierna Boario Terme. Le Ferriere di Voltri vennero gravemente danneggiate e vi furono gravissimi danni alle viabilità ed alle strutture.

Più a valle (Corna e Darfo) la valle del Povo si allarga e raggiunge l'Oglio. L'energia dell'ondata andò attenuandosi ma causò ancora vittime a gravissimi danni sino a raggiungere, 45 minuti dopo il crollo, il Lago d'Iseo. Qui lo spettacolo non fu meno terribile: una cinquantina di salme galleggiavano nell'acqua torbida. Il calcolo delle vittime fu stimato sulle 500 unità, mentre il conteggio delle vittime ufficiali si fermò a 360.

Il 3 dicembre 1923 giunsero a Darfo a commemorare le vittime il Re Vittorio Emanuele III e Gabriele d'Annunzio. A causa dell'impraticabilità delle strade, nessuna autorità poté visitare Angolo Terme e Mazzunno.

Il 30 dicembre 1923 il Procuratore del Re incolpò per l'omicidio colposo di circa 500 persone i responsabili della ditta Viganò ed il progettista ing. Santangelo. Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannò Virgilio Viganò e l'ing. Santangelo a tre anni e quattro mesi di detenzione più 7.500 Lire di multa. Va ricordato che la maggioranza dei sinistrati era stata precedentemente tacitata con indennizzi economici. I condannati scontarono solo 2 anni e la multa fu annullata. Il Cavalier Viganò morì nel 1928.

Dal processo, che ebbe luogo tra il gennaio 1924 e il 4 luglio 1927 e si concluse, come detto, con la condanna del titolare della società concessionaria e del progettista a tre anni e quattro mesi di detenzione, emerse che i lavori erano stati eseguiti in modo inadeguato ed in economia, che il progetto fu cambiato più volte in corso d'opera senza le opportune verifiche e che il controllo da parte del Genio Civile era stato svolto in maniera approssimativa e superficiale.

Il quadro che risultò dalle molte testimonianze fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all'antica, che non tollerava l'intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo impiegavano tanto più Viganò guadagnava. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Venne anche criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano. Con queste premesse il disastro fu inevitabile.

Il Disastro del Gleno rappresenta un esempio macroscopico degli effetti di un'approssimativa progettazione e malcostruzzione di una diga. La scelta (dettata da ragioni puramente economiche) di variare in corso d'opera la tipologia stessa della Diga ha rappresentato una sorta di bestemmia strutturale.

Le dighe ad archi multipli presupponevano un ottimo terreno d'appoggio poiché le volte hanno la funzione di trasmettere gli elevati carichi alle fondazioni. Quest'ultime devono essere dunque incastonate in roccia compatta ed integra. A Pian del Gleno le rocce subivano gli effetti degradanti del gelo e disgelo ed inoltre erano state sottoposte all'azione dei ghiacciai durante le glaciazioni. Ma, anche tralasciando il fattore geologico dell'area, ben undici arcate furono appoggiate direttamente sul tampone a gravità inizialmente costruito. Si creò una pericolosissima discontinuità strutturale. Solo un'accuratissima esecuzione delle opere avrebbe garantito un certo grado di sicurezza. Durante la fase istruttoria del processo vennero sentiti molti testimoni. Il quadro che ne risultò fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Non solo: le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all'antica, che non tollerava l'intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo vi impiegavano tanto era di guadagnato. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Ed ancora: venne criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano. Con queste premesse (e ve ne furono molte altre) il disastro fu inevitabile.



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